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Asino chi legge

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Che il tifoso accanito nulla abbia a che fare con lo spirito sportivo è dato di fatto. Non esulta quando vince il migliore e difficilmente accetta la sconfitta, piuttosto, pretende che la squadra migliore sia la propria. Certamente non c’è nulla di male a essere tifoso, ma a essere ignorante sì. Soprattutto quando si fa parte di quei 34 milioni d'italiani che seguono il calcio e di questi, 19 milioni di fanatici (il 37% circa della popolazione adulta) che si dichiarano accaniti tifosi e che leggono (se leggono) articoli sul calcio, informandosi più volte a settimana su quello che riguarda la propria squadra, oltre a vari campionati, tralasciando politica, economia, filosofia e società, facendosi scivolare addosso tutto quello che accade nel mondo; non è analfabetismo funzionale, è peggio.

L’ignorante di serie A, ha comportamenti compulsivi assimilabili alle dipendenze più diffuse, a questi, va aggiunta la presunta consapevolezza dello “smetto quando voglio”, nell’illusione che possa parlamentare o interagire con il resto del mondo con la stessa disinvoltura con cui parla di calcio, salvo fare figuracce ogni qual volta costretto a parlare d’altro. Chiedetegli cosa pensa dei Pasdaran o di Netanyahu, risponderà che preferisce il campionato Europeo… Potreste azzardare sul centravanti Benedetto Croce o sul manuale Cencelli per immaginarne la risposta.

Per il tifoso accanito, che in molti casi ha letto l’ultimo libro durante l'ultima era glaciale, l’importante è sapere quanto il giocatore Jägermeister (nome di fantasia) sia costato alla squadra che probabilmente vincerà il campionato. Il tifoso commenta il mancato rigore concesso dall’arbitro e di questo parlerà per tutta la settimana sciorinando tecniche di gioco o contestando le scelte dell’allenatore. Spesso è convinto di essere padre di un Rummenigge in erba costringendo il figlio ad allenamenti estenuanti salvo rendersi conto, dopo anni, di avere combinato guai spesso irreparabili e che lo stesso impegno, speso in istruzione, avrebbe probabilmente restituito risultati migliori. Conosco persone che hanno assistito a "derbyssimi" giocati all'olimpico o a san siro senza avere visitato il milite ignoto o l'ultima cena, gli stessi che non votano al referendum ma non perderebbero la partitissima del cuore.

Parla di calcio il poveraccio che per limiti culturali è l’unico linguaggio che comprende e s’illude di essere “uguale” a chi, borghese o istruito, risponde o controbatte. Parla di calcio il medico al paziente prima dell’operazione e l’avvocato prima dell’udienza per tranquillizzare l’assistito. Parla di calcio il ministro persino nelle occasioni ufficiali per far vedere che è “uno del popolo” e attinge dal linguaggio calcistico le metafore per descrivere la politica. La "scesa in campo" di Berlusconi condizionò, più di ogni altro, un certo linguaggio proletario. 

Fare parte di un branco “o di un gregge” è una delle forme in cui si manifesta il carattere essenzialmente gregario dell’uomo, pertanto, avere interessi culturali condivisi con altri simili, è riconducibile all’antropologia, ma il tifoso compulsivo, manifesta il lato peggiore della sottospecie umana: rinuncia alla propria individualità, si esalta con i suoi simili perché la squadra del cuore ha vinto il campionato, si deprime se retrocessa di categoria. Ho visto tifosi disoccupati e senza casa, danzare di gioia per la vittoria sull’avversario e scene di delirio collettivo per avere vinto “la coppa”, nemmeno fosse finita la guerra…

Tutti sanno che il calcio è schifosamente malato, che le scommesse falsano da anni i risultati delle partite e che il business, specie quello dei tifosi, è gestito dalla ndrangheta e dalla camorra in combutta con i giocatori e i club, tuttavia, il tifoso compulsivo ha trovato un modello psicoanalitico che mette in luce le condizioni necessarie per avere un ideale condiviso e parlare un linguaggio basico che non supera le 1500 parole contro le circa 6500 del vocabolario di base.

E se il tifo compulsivo fosse uno sfogo per i lati oscuri della personalità? Se le persone che vediamo entrare nelle sale scommesse con lo stesso sguardo che avevano gli “allupati” negli anni '70 entrando nei cinema a luci rosse non potessero esultare per un goal segnato dal Rotterdam al primo tempo, come sfogherebbero i propri bassi istinti? Magari essere irrazionali è semplicemente una scelta. 

Dalla penna felice di Edoardo Maruca

 

 

 

 

Edoardo Maruca

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